2. Gli studi sull'elettricismo
La storia dell'"elettricismo" è antichissima: il cenno più remoto su
qualche effetto "elettrico" si trova già nelle opere del naturalista
Teotrasto (III sec. A.C.) il quale menziona la
proprietà dell'ambra e della tormalina di attrarre corpi leggeri. A
parte queste prime osservazioni, per un lunghissimo periodo non vi
furono novità in questo campo e lo stato delle cose rimase pressoché
immutato fino all'inizio del XVII secolo quando il medico inglese
Gilbert, sulla base di studi sperimentali durati 15 anni e riassunti
nel suo De magnete, pose le basi dello studio moderno
dell'elettricità e del magnetismo. Si avanzò poi per piccoli passi con
i contributi di Boyle, Bacone, Guericke, Newton e, non ultimo,
Hawkesbee. Fu il tedesco Guericke che costruì la prima macchina capace
di produrre elettricità in considerevole misura (da lui descritta in: Experimenta nova Magdeburgica, pubblicato nel 1672): un grosso globo di zolfo veniva messo in rotazione e strofinato con la mano. Da allora studi si intensificarono e la teoria ebbe uno sviluppo lento ma continuo. Il XVIII secolo vide due grandi scoperte: la boccia di Leyda e la pila di Volta, di cui parleremo più avanti.
La scoperta del condensatore, il cui primo esempio fu appunto la bottiglia di Leyda, avvenne in maniera accidentale nei gabinetti di Fisica dell'Università di Leyda nel 1745. Il professor Van Musschenbroek tentava di far scoccare scintille dall'acqua contenuta in un vaso di vetro ed elettrizzata con una macchina elettrostatica; lo sperimentatore Cuneus, che lo assisteva, nell'estrarre l'asta metallica della macchina elettrostatica dall'acqua ricevette una scossa elettrica molto più forte di quella che potenzialmente la macchina poteva fornire. Nello stesso periodo anche il canonico tedesco Von Kleist nell'elettrizzare dell'acqua (probabilmente per
berla, viste le virtù terapeutiche che al tempo si attribuivano
all'acqua "elettrica") arrivò alle stesse conclusioni.
L' Italia in questo campo non è da meno. "Padre" dell'elettricismo
italiano può essere considerato Giambattista Beccaria (Mondovì 1716-1781) che occupò la cattedra di Fisica di questo Ateneo dal 1748 fino alla morte. Egli si occupò quasi esclusivamente di elettricità; in particolare studiò i parafulmini apportandovi dei miglioramenti e ne introdusse l'uso in Piemonte. Il suo primo importante lavoro , pubblicato nel 1753, fu presto noto in tutto il mondo e gli valse
l'ammirazione di Franklin e di Priestley, fra gli altri.
Beccaria confuta la diffusa opinione che la conducibilità sia identica
per tutti i conduttori, e formula il primo enunciato quantitativo di
resistenza, dimostrando tra l'altro che in un filo conduttore essa è
proporzionale alla lunghezza. Sono dovute a lui anche le prime
ricerche sulla propagazione dell'elettricità nei conduttori con la
classica esperienza del pozzo di Beccaria e la costruzione del
primo modello di mortaio elettrico.
Quest'ultimo era costituito da un recipiente contenente due fili
metallici quasi a contatto e chiuso da una sferetta: posta una goccia
d'acqua fra i due fili, all'atto della scarica provocata da una boccia
di Leyda, la sferetta veniva scagliata lontano.
Con Beccaria nell'Ateneo torinese si ebbe una netta rottura col
passato: l'approccio "filosofico" alle scienze fu sostituito da
quello sperimentale; la fisica cartesiana fu abbandonata e fu
sostituita dalla meccanica di Galileo e dall'ottica di Newton.
Fenomeni nuovi quali appunto l'elettricità vennero studiati e ben
presto la scuola ed il metodo di Beccaria si imposero a livello
internazionale. Alcune idee di Beccaria vennero anche contestate: il
primo lavoro di A.Volta, del 1769, attacca appunto la teoria
dell'elettricità vindice. Beccaria spiegava in questo modo
l'elettricità che pareva nuovamente apparire da un coibente caricato
precedentemente e scaricato da una lamina metallica, mentre Volta
spiegava questi fenomeni in termini di induzione.
La scuola Torinese avviata da Beccaria può essere vista come una
delle prime espressioni scientifiche dell'Illuminismo italiano. Essa
ebbe come allievi illustri scienziati come Giuseppe Luigi
Lagrange (Torino 1736 -- Parigi 1813) il conte Giuseppe Angelo
Saluzzo di Monesiglio (Saluzzo 1734 – 1810) studioso della fisica
delle sostanze gassose e maestro dell’Avogadro, Gianfrancesco
Cigna (Mondovì 1734--1790), concittadino e parente di Beccaria
(erano entrambi nati a Mondovì), aveva studiato medicina, ma già in
gioventù venne ammesso nel laboratorio privato di Beccaria, ove
assisteva e collaborava alle esperienze di Chimica, di Elettricità e
di Ottica. Apprese da Lagrange e da Saluzzo le Scienze matematiche pur
continuando a dedicarsi alla medicina. Cigna e Lagrange entrarono in
polemica con Beccaria a causa delle interpretazioni discordanti di
alcune esperienze. Essendo stati allontanati dal maestro, essi diedero
vita, unendosi ad altri studiosi, alla Società Privata Torinese che
poi diventerà la ben nota Accademia delle Scienze.
Il XVIII secolo si chiude con la fondamentale scoperta della pila
di Volta. Egli divise i conduttori in due classi: la prima
comprendente i metalli che messi a contatto assumono potenziali
diversi, la seconda gli elettroliti. Proprio in virtù del
potenziale di contatto e infrapponendo strati di elettroliti Volta
costruì la pila formata da strati di rame e zinco e panni imbevuti
di acido.
In seguito all'invenzione della pila fu possibile avere a disposizione
forti correnti, cosa non attuabile con le normali macchine
elettrostatiche. Sebbene esse, in condizioni ottimali, potessero
fornire alti voltaggi (che possiamo quantificare oggi dell'ordine
delle decine di migliaia di volt, a giudicare dalla lunghezza della
scintilla che si poteva ottenere), l'energia da esse liberata nella
scarica dipendeva dai condensatori che accompagnavano la macchina e le
scariche stesse si susseguivano solo agli intervalli di tempo
necessari per ricaricare i condensatori. In condizioni ottimali la
potenza prodotta era dell'ordine del watt. Con la pila invece, anche
se ogni singolo elemento poteva fornire un voltaggio di poco superiore
al volt, era possibile aumentare notevolmente la potenza mettendo in
serie parecchi elementi. Già nel 1821 Davy fece costruire una gigantesca
pila composta da duemila elementi (occupava una superficie di ben 82
metri quadrati) ma bastarono pochi anni per vedere pile di 14000
elementi. Si potevano così ottenere elevatissime correnti di decine di
ampere e si potevano avere a disposizione potenze di 10 Kw. Fu così
possibile attuare esperienze che richiedevano potenze maggiori di
quelle fornite dalle normali macchine elettrostatiche, dalle
esperienze chimiche sull'elettrolisi fino all'elettromagnetismo.
Nel XIX secolo si assiste al passaggio dallo studio dei fenomeni
elettrici indirizzato principalmente agli effetti chimici, alla loro
investigazione in relazione ai campi magnetici. I primi lavori in tale
direzione erano già stati effettuati nel secolo precedente con diversi
contributi italiani. Fra questi gli esperimenti di
Beccaria riportati nel suo trattato; essi
consistevano nella magnetizzazione di aghi per cucire tramite forti
scariche ottenute da bottiglie di Leyda. Il fenomeno d'altronde era
già noto nei primi del '700: spesso i fulmini magnetizzavano delle
chiavi d'acciaio. Va ricordata anche l'esperienza compiuta dal Conte
Morozzo nel 1803 e riferita successivamente dal Vassalli-Eandi
(1761-1825) allora segretario dell'Accademia delle scienze di Torino
(nonché docente in questo Ateneo):
Il concetto di un'identità fra i fenomeni elettrici e quelli magnetici
enunciato dal Beccaria è molto importante e fu considerato di grande
valore dai contemporanei.
Era dunque pronto il terreno che portò alla nascita
dell'elettrodinamica e dell'elettromagnetismo con le due fondamentali
scoperte di Œrsted e di Faraday avvenute nel 1819 (ma riferita nel
1820) e nel 1831. L'esperienza di Œrsted sulla deviazione di un ago
calamitato avvicinato ad un filo percorso da corrente in realtà era
già stata eseguita dal Romagnosi nel 1802 ma non le era stata data nessuna
importanza; Œrsted ebbe il merito di determinare esattamente il senso
della deviazione per ogni posizione relativa della corrente e
dell'ago. Questa esperienza fu riferita all'Accademia di Francia nel
settembre 1820 da Dominique-François Arago (1786-1853); pochi giorni
dopo André-Marie Ampère dimostrò che una spira percorsa da corrente ha
azioni elettrodinamiche equivalenti a quelle di un magnete. Anche
Ampère ebbe problemi a causa della bassa potenza delle pile di cui
poteva disporre personalmente (spesso doveva richiedere l'utilizzo
della «pila grande» dell'Istituto). L'attività dell'Accademia di
Francia in questo periodo è notevole: nell'adunanza del 30 ottobre
1820 viene comunicata la legge trovata sperimentalmente da
Jean-Baptiste Biot (1774--1862) e Felix Savart (1791--1841) che
descrive il campo magnetico nello spazio attorno ad un conduttore
rettilineo percorso da corrente.
Veniamo ora alla seconda grande scoperta fondamentale
dell'elettromagnetismo: la possibilità di ottenere correnti elettriche
da magneti in movimento. La scoperta fu effettuata dall'americano
Henry nell'agosto del 1830; venne trovata indipendentemente poco tempo
dopo da Faraday che però la pubblicò per primo il 24 novembre 1831.
Precisando il concetto delle linee di forza del campo elettrico
Faraday giunse alla descrizione dei fenomeni elettromagnetici in
termini oggi noti come "campo di forze". La storia di questo
straordinario ricercatore è singolare e vale la pena di raccontarla:
Michael Faraday nacque nel 1791 in un villaggio alla periferia di
Londra da famiglia povera. Grazie al suo primo impiego come rilegatore
all'età di tredici anni venne a contatto con vari libri che gli
capitarono fra le mani apprendendo nozioni di chimica e di fisica di
base. Seguendo alcune lezioni del celebre Davy fu accolto da
quest'ultimo come inserviente e fu condotto all'estero dove ebbe modo
di venire a contatto con illustri fisici dell'epoca. Passò anche per
Torino (1814) ove non è improbabile che sia venuto a contatto con le
opere scientifiche locali fra le quali quelle di Avogadro.
Nel 1833 venne pubblicata un'altra importante scoperta: in questo anno
infatti Lenz comunicò all'Accademia di Pietroburgo di aver dedotto
sperimentalmente il principio secondo il quale il senso di movimento
delle correnti indotte è sempre tale che le forze ponderomotrici
agenti sul conduttore si oppongono al movimento prodotto da tali
correnti.
È così pronto il terreno per lo sviluppo pratico di queste idee:
su questi principi si basa infatti il funzionamento di macchine
dagli scopi più diversi: strumenti di misura, motori elettrici,
telegrafi. Si realizzano in questi anni i primi elettromagneti e,
sempre sfruttando il principio di Œrsted, Schwigger (1779-1857)
realizza nel 1820 il prototipo del primo galvanometro al quale si
aggiungeranno presto, con varie modifiche funzionali, i modelli di
Lagrange, D'Arsonval, Kelvin, Weston, Nobili ed altri ancora. I
primi esperimenti sui motori elettrici più significativi sono
realizzati in Europa nel periodo 1834-1838 da Jacobi, preceduti
però da diversi studi effettuati in Inghilterra, negli Stati Uniti
ed in Italia (Dal Negro e Botto). I modelli di Dal Negro e Botto
precedono di qualche anno il motore di Jacobi; quest'ultimo però
ottenne dalla sua macchina un movimento rotatorio diretto, mentre
il modello di Botto produceva un movimento oscillatorio dell'organo
di lavoro che poteva successivamente essere trasformato in rotazione
con ovvie perdite di energia. Il prototipo di Jacobi è del 1834;
Botto arriverà ad un modello a rotazione diretta nel 1836.
La figura di Botto a Torino fu rilevante. Giuseppe Domenico
Botto era nato a Moneglia in Liguria il 4 Aprile 1791. Intrapresa la
carriera accademica fu nominato in prova alla cattedra di Fisica
sperimentale dell'Università di Torino nel Novembre del 1826 e nel giro
di un paio d'anni divenne professore ordinario. La sua attività di ricerca
verteva su studi sperimentali in linea con i filoni
dell'epoca: si concentrò soprattutto sugli effetti della corrente
elettrica dando anche varie interpretazioni teoriche. Particolarmente
apprezzate dal mondo scientifico le sue esperienze sulla scomposizione
dell'acqua per mezzo di una grossa pila termoelettrica. Di
questa celebre esperienza(riprodotta in si trova menzione anche in trattati francesi, ad esempio nel Ganot.
Per quanto riguarda le altre applicazioni tecniche è senz'altro da
menzionare la realizzazione del già citato motore che fu uno fra i
primissimi motori elettrici. Nella realizzazione degli strumenti Botto
fu certamente aiutato dalla presenza di Enrico Federico Jest come
meccanico del Gabinetto di Fisica. Jest era un progettista geniale ed
un costruttore abilissimo, capace di realizzare strumenti di notevole
qualità. Fra i vari trattati dell'epoca che lo testimoniano citiamo il
Molti lavori di Botto furono compiuti in collaborazione con Amedeo Avogadro. Avogadro (1776-1856) fu in realtà presente a Torino in veste ufficiale come titolare della cattedra di Fisica Sublime (prima in Italia) solo per un breve periodo. Venne infatti nominato nel 1820 ma fu allontanato nel luglio del 1822 per l'appoggio che aveva dato alle manifestazioni studentesche del 1821. Dopo alcuni anni (in cui ci fu anche una chiusura dell'Università fra il 1830 ed il 1832) Avogadro riprese l'attività accademica e di ricerca affiancando Botto in diversi lavori sulla conducibilità dei liquidi; non è però fatta menzione della sua presenza nel calendario, che riporta ``N.N.'' nella sezione Fisica Sublime. Oltre che per la sua famosa legge del 1811 Avogadro va ricordato anche per i suoi contributi sul galvanometro astatico (perfezionato poi dal Nobili) e sulla pila voltiana (1826).
Negli anni dal 1851 al 1854 un'altra figura rilevante nel campo degli
studi sull'elettricità ricopre un insegnamento di Fisica a Torino
(come professore sostituto): Gianalessandro Majocchi (1795--1854).
Majocchi, gran divulgatore, estremamente attivo ed efficace
[1],
si interessò di vari argomenti di termologia e fece anche una
proposta sull'istituzione di un servizio di rilevamento termometrico e
barometrico a basso costo (messo poi in atto nel 1853) lungo la linea
ferroviaria Torino--Genova. Il suo contributo più importante resta
tuttavia la realizzazione del galvanometro cosiddetto
universale che porta il suo nome.
Nel suo trattato scrive:
Dal 1857 al 1861 la cattedra di Fisica generale e sperimentale fu
tenuta da Silvestro Gherardi (1802--1879) che diede contributi allo
studio della disposizione delle punte nelle macchine elettrostatiche e
studiò una modifica al galvanometro per la misura delle correnti
fugaci. Proponendo di collocare i due aghi del sistema astatico
(ideato qualche anno prima da Nobili) in due moltiplicatori
sovrapposti, diede un'idea che sviluppata da Thomson portò con
ingegnose modifiche alla realizzazione del modello oggi noto come
Galvanometro di Thomson.
Tra il 1862 ed il 1878 la cattedra di Fisica fu occupata da Gilberto Govi (1826--1889)
che fu abile sperimentatore (attuò le migliori esperienze per dimostrare che il
volume di una bottiglia di Leyda aumenta con la carica (1886)) e si
occupò di divulgazione scientifica e storia della scienza pubblicando
moltissimi articoli e monografie: se ne contano quasi duecento[2]!
Con la venuta di Andrea Náccari (1841--1926) si chiude il secolo. Egli tenne la cattedra di fisica Generale e Sperimentale per un lungo periodo (1878--1916) durante il quale venne tra l'altro in contatto con Galileo Ferraris (1847--1897) e lo incoraggiò alla pubblicazione della sua idea del campo magnetico rotante che portò alla costruzione di un piccolo motore polifase (1885). Fu pubblicato un rendiconto solo nel marzo 1888, qualche mese prima di Tesla che a maggio esponeva il prototipo di un motore simile all'American Institute of Electrical Engineers.
Note
(*)
Cependant M.Botto, à
Turin, en réunissant 150 couples thermo--électriques de platine et
de fer, a pu obtenir des traces de décomposition dans les
liquides.
(1) S. Leschiutta: Gli
"elettricisti" italiani della prima metà dell'Ottocento, Giornale
di Fisica, Vol. XXXV (1994) pag. 3.
(2) L. Briatore, S. Ramazzotti:I "Vinciani" d'Italia: Gilberto Govi, scienziato e storico, Giornale di Fisica, Vol. XXXV (1994) pag. 127.